Bolivia 2014...

Ci abbiamo provato anche quest’anno. Anche quest’anno, prima di partire, abbiamo svuotato lo zaino dei pensieri e della mente e ci siamo rimessi in gioco, questa volta, però, in una Terra molto lontana, una Terra da sempre culla del calore umano, dei rapporti, dell’ospitalità: l’America Latina.
     Precisamente siamo partiti alla volta della Bolivia. Uno degli Stati più poveri del Sudamerica. Poveri dal punto di vista materiale, sia chiaro, perché dal punto di vista “umano” sono molto più ricchi di noi occidentali, che siamo spesso impauriti non solo dal “diverso”, ma anche dal nostro vicino di casa… tutto questo in Bolivia non accade. Ci hanno accolto benissimo fin dal primo giorno. Un affetto che ci ha addirittura spiazzato e, a tratti, imbarazzato.
     Abbiamo trascorso tre settimane in questa magnifica Terra. Tre settimane ospiti della Missione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù presso Minero. Minero è un villaggio molto povero a circa due ore di macchina da Santa Cruz de la Sierra, la città più popolosa di tutta la Bolivia, situata nella parte orientale. Le tre sorelle, Elaine, Rosane e Marinez, sono tutte e tre originarie del Brasile. A Minero gestiscono un centro per bambini che vivono in condizione di povertà e con difficoltà familiari. Un’insegnate boliviana, detta “Profesora”, gestisce dal punto di vista pratico questo centro, insegnando anche canti, balli e aiutando questi bambini, dai 5 agli 11 anni, a studiare. Il nostro contributo è stato proprio di questo tipo: abbiamo affiancato la “Profesora” nelle attività di tutti i giorni, oltre ad insegnare loro anche qualche nuovo gioco. L’affetto che ci hanno dimostrato i “niños”, fin dal primo giorno, è un’emozione che mi porto ancora dentro. Un affetto semplice, genuino, sincero, come solo i bambini possono dimostrare. I bambini possono insegnarci molte cose, ci parlano con i loro gesti, con i loro occhi, ci fanno riscoprire il valore della sincerità, il valore della semplicità. Su questi valori dobbiamo basare la vita di tutti i giorni, per poter rivalutarci in quanto “esseri umani” rendendoci portatori sani di gioia, cultura e solidarietà. (“…La crescita dello spirito segue il cammino inverso di quello della carne: il corpo cresce, ma l’infanzia è pur sempre il frutto.” C. B.)
      Anche la povertà, seppur a volte è difficile da comprendere, può insegnarci molto. Accompagnati dalle suore, dalla profesora e dagli stessi bambini, abbiamo visitato le famiglie in cui vivono i niños. Baracche di lamiera o di legno o, per chi è più fortunato, in mattoni, in cui vivono dalle quattro alle otto persone. Le famiglie sono molto numerose. Le condizioni di vita sono difficili, ma questo è un popolo orgoglioso, un popolo che non è abituato a piangersi addosso e che, consapevolmente, accetta le condizioni in cui si trova cercando di vivere in modo dignitoso.       L’ospitalità di questa gente è stata incredibile. Ci hanno offerto di tutto, regalato frutti del loro giardino e con questi piccoli gesti ci hanno spiegato il valore dell’accoglienza, un concetto che ultimamente sta scomparendo da noi in Occidente. Queste famiglie povere si aiutano a vicenda non solo se si trovano in difficoltà, ma anche nella vita di tutti i giorni. D’altronde il motto della Repubblica Plurinazionale della Bolivia è proprio “La unión es la fuerza” e non ci poteva essere motto migliore per descrivere il modo
di vivere di questo popolo. Anche il concetto di “tempo” merita due parole. I primi giorni sembrava non passasse mai. La vita scorre ad un ritmo più calmo, umano, per niente frenetica. Anche questo ci è servito. Perché da noi si è sempre impegnati a riempire l’agenda, a sfruttare ogni buco di tempo libero per fare una qualsiasi attività senza minimamente darle la giusta importanza. Anche il tempo è un valore. Loro, diversamente da noi, ne sono ancora padroni e non schiavi. Le giornate passavano bene, il nostro gruppo si affiatava. Tre ragazzi, tre ragazze con a capo la mitica Suor Luisa. Abbiamo potuto mettere in pratica tra di noi ciò che imparavamo giorno dopo giorno, confrontandoci, discutendo, parlando tra una canzone e l’altra sotto il bellissimo cielo stellato boliviano che chiudeva le nostre giornate. Ci siamo presi anche quatto giorni di “vacanza” (di cui due di viaggio) per andare a visitare il Salar de Uyuni, un immenso lago salato situato nell’altopiano Andino meridionale a 3650m di quota. Il deserto. Nel nulla cerchiamo noi stessi. Quello che siamo. […”E’ una domanda infantile, posta dall’anima che si dibatte in un lembo di cielo blu, sotto un silenzio troppo grande per lei: da dove vengo, io che non sono stato sempre qui? Dove ero quando non ero nato?”… C. B.] Tornati da questi quattro giorni da turisti, percorrendo migliaia di km in pullman malandati e maleodoranti su delle strade tortuose e difficili, abbiamo cercato di dimostrare la nostra gratitudine ai niños, rinnovando il parco giochi, scrostando e pitturando le giostre che ormai erano deteriorate: il gesto è stato piuttosto piccolo rispetto a quello che loro hanno fatto per noi. Il loro affetto, i loro occhi, il loro sorriso rimarrà per sempre nei nostri ricordi e ognuno di noi non li dimenticherà perché li manterrà nel proprio cuore.
   Grazie niños, non preoccupatevi ci rivedremo. Infine devo anche menzionare e ringraziare i lavoratori della Panetteria Sociale perché sono sempre stati molto gentili e disponibili. Ci hanno trattati come fratelli nonostante li avessimo battuti nella bella sfida Bolivia-Italia a calcio! Ci è piaciuto condividere con loro il Churraco a pranzo perché è stata un'occasione di scambio culturale e di arricchimento. Che dire, è stata un'esperienza molto interessante che ci ha presentato una realtà molto diversa dalla nostra. Una realtà che ha aperto la nostra mente e soprattutto il cuore. La cosa che non dimenticherò mai di queste tre settimane in Bolivia è la dolcezza, l'orgoglio e soprattutto l'ospitalità di questa magnifica gente. ¡Muchas Gracias Bolivia, yo te quiero mucho mas!
TOMMASO

WAKE UP! Quando la periferia sa di vita

Roma. Fermata Bologna della metro B. Qualche passo ancora e poi finalmente ci si riposa all’Ostello degli scout; anche oggi una giornata intensa fatta di cammino, sguardi, voci e nuovi
incontri! … E chi l’avrebbe detto che anche a Roma si poteva fare così tanto? Nella capitale dalle bellezze artistiche infinite, nella capitale dei nostri cari politici; nella città eterna fatta di splendide sere a Trastevere, del ponentino che di sera profuma di mare le viuzze dei rioni che si affacciano sul Tevere, della babele di lingue e colori tra Pantheon, Castel Sant’Angelo e Fori Imperiali … Incantevole estate romana che ho potuto godere assieme a suor Lorella, le ex-alunne del Seghetti Valentina ed Eleonora e gli amici Julia e Guido.

Noi però Roma l’abbiamo vissuta davvero: Primavalle, Serpentara, Rebibbia, Garbatella, il Nomentano, Tor Vergata, Tor Bella Monaca… Sono quartieri dove è massimo l’odore di umanità, di Italia che arranca, che a volte ce la fa, di cittadini che accolgono e di uno Stato che non esiste; palazzoni-dormitorio lunghi un chilometro che accolgono mondi di famiglie che vivono alla giornata e lottano contro una società che non conosce ancora la cultura dell’integrazione e della vera uguaglianza dei diritti. Fuori, a pochi passi, presso gli incroci e tra centomila cose abbandonate, stanno gli amici stranieri che conoscono Roma meglio di un romano o di ogni critico d’arte e conoscono la vita meglio di ogni studioso o sociologo. Persone dimenticate da tutti. O quasi.
Si parla tanto di Europa … Bene, sono europei, come me [non abbiamo più nemmeno l’alibi di chiamarli extra-comunitari]. Viandanti e vagabondi. E romani: tanti. Sono cittadini, come me; sono persone, proprio come me. E li chiamo amici perché così mi hanno insegnato a fare donne e uomini di ogni età e cultura che fanno parte della Comunità di S. Egidio: Maria Paola, Tommaso, Francesca, Vito e tutti coloro che quelle periferie le frequentano e le vivono. Proprio con loro abbiamo fatto esperienze di condivisione autentica e di spiritualità incarnata e vissuta nella realtà.
Abbiamo conosciuto la Comunità S. Egidio per la prima volta lunedì 28 luglio proprio a Trastevere, dove quarant’anni fa è nata la loro storia grazie ad Andrea Riccardi che all’epoca era uno studente di un Liceo di Roma. Ora sono in moltissimi e intrecciano reti di solidarietà non più solo a Roma ma nel mondo intero. Con loro abbiamo preparato un migliaio di panini [farciti di ghiottonerie!]: una gara contro il tempo per portarli a cena ai poveri delle stazioni metro e dei treni della città, oltreché nella periferia Sud: il palazzone in viale dell’Archeologia, il grande ospedale; l’incrocio dove si passa e non si guarda più perché della miseria prima ci si abitua e poi ci si stanca. E lì scopri Kristof e Adrian che di parlare hanno una voglia spropositata, di raccontarti quando erano integrati nella società, di piangere pensando alla figlia che di loro si vergogna, di dirti che di lavorare sarebbero ancora capaci … Forse pure di smettere di bere.
Nel quartiere Ostiense, fradici di un’estate un po’ troppo umida, abbiamo sistemato cappotti, vestiti da sposa, pellicce e coperte nel magazzino della Città Equo-Solidale: impossibile resistere al fascino dei miliardi di ninnoli vintage che ci circondavano. E poi di corsa sull’Isola Tiberina a visitare la chiesa di S. Sebastiano dedicata ai martiri del XX secolo: gente d’Albania, Africa, Oceania e Italia che ha dato la vita per la testimonianza e per dare sollievo al prossimo.
A Serpentara i volontari di S. Egidio ci hanno portato presso un ricovero per anziani dove i pazienti privilegiati scartano le loro ore e quanto rimane della loro vita davanti a 4 televisori ogni 10 metriquadri. Abbiamo scambiato chiacchiere con ognuno di loro: hanno occhi che desiderano comunicare, ricordare, esprimersi e gambe che forse non sarebbero lì inchiodate a quella sedia a rotelle. Un infermiere nel frattempo inseguiva un simpatico barboncino che aveva espletato i propri bisogni proprio nella sala-TV [la chiamano pet-therapy]. Nella veranda un pappagallo muto vicino ad una signora dallo sguardo dolce e vivacissimo che non vedeva l’ora di poterci rivelare una meravigliosa confidenza: “Ogg i… compio gli anni!”
Un’esperienza inaspettata e sorprendente è stata anche quella del servizio presso la mensa dei poveri a Primavalle, presso l’Opera Don Calabria. Cinzia, Mirella, Mario, Ergis, Francesca, Ervis e gli amici con cui abbiamo condiviso momenti intensissimi tra centinaia di pesche da tagliare, delizie da distribuire e impagabili sorrisi di chi veniva a mangiare. Per loro era un importante momento di aggregazione -talvolta molto animato!- ricaricare il cellulare, gustare un buon caffè e una bella fetta di cocomero. Ci sono famiglie, coppie anziane, uomini e
donne soli ma che sanno dire tutti un bel “grazie” e un bel “per piacere”. Ovviamente tutti, ma proprio tutti, in un nitido, piacevolissimo slang romanesco. … Che bello che è stato condividere
con voi e con la banda di Cinzia quelle ore!
E poi una telefonata: la solita metro B e via verso Ponte Mammolo, dove prima siamo stati accolti tra i colori della scuola dell’infanzia Sacro Cuore e dove poi abbiamo cenato nella casa-famiglia delle nostre suore, una realtà di condivisione che ha davvero centrato il nostro cuore. Cara suor Massimina: da voi ci siamo davvero sentiti a casa; una casa semplice ma colorata e ricca delle culture che accogliete.
“Wake up!” è stato l’urlo di Francesco in Corea del Sud. Svegliamoci, non lasciamo intorpidire membra e senno dai social network e dai messaggi spediti a destra e manca con wazzup [tanto è tutto gratis]. Il mondo -è gratis pure quello- ci chiama in ogni momento e da noi aspetta una risposta. La terra è un posto dove piedi e mani sono fatti per sporcarsi; i volti non per bramosi selfies ma per esser segnati dalle rughe delle nostre emozioni; gli occhi per esser riempiti dei meravigliosi incontri che possiamo fare ogni giorno.
 

 

A Roma abbiamo capito anche questo.
“Wake up!” L’Italia, l’Europa, il mondo sono luoghi che noi costruiamo, troppo veri e troppo belli per perder tempo con stili di vita che di reale hanno ben poco.
Lamberto Scolari
[e l’allegra banda: suor Lella, Vale, Elli, Juli e Gu’]

Giovani e Missione (Volontariato)

EDUCARSI ALLA MONDIALITA’giovanissimi all’estero

Albania, luglio 2013
BUSSARE LA PORTA ALLA SEMPLICITÀ

Ecco un altro piccolo racconto di una nuova avventura in Terra Balcanica, nel cuore di quell’aquila bicefala a cui… è inutile… ti ci affezioni! Come da tradizione, “un gruppo” proveniente dall’Istituto Seghetti e dai pensionati di Brescia e Trento delle Figlie del Sacro Cuore, è partito alla volta dell’Albania per fare un campo estivo e alcuni lavori manuali durante le ultime due settimane di luglio.
I ricordi pian piano riaffiorano! La strada che attraversa Shengjin è un po’ come il corpo oblungo di quel rapace a due facce: da una parte il mare, quell’Adriatico quieto, nemmeno troppo limpido, ma che sembra essere fatto apposta per i resort, i locali con musica assordante e la nuova passeggiata che ostenta benessere nascondendo i proventi di chiare speculazioni mafiose.
Dall’altra parte le casupole fatte in qualche maniera, i locali dove girano perennemente i polli allo spiedo, i cassonetti svuotati dai magyp (zingari albanesi) e la nuova chiesa delle suore che lentamente si completa.
Ecco: tra i cortili della Shengjin dimenticata dal turismo e dall’amministrazione locale ci siamo mossi dividendoci in quattro gruppi per divertire e divertirci con un centinaio di bambini con il contributo prezioso, anzi assolutamente indispensabile, delle maestre e degli animatori albanesi: Alda, Arta, Josi, Dori e Gabri, Xhulio, e il nostro angelo custode Ardjan.
Il lavoro delle nostre suore Gianna, Fernanda, Assunta e Rosa è sempre più intenso e davvero incommensurabile per l’entusiasmo e i piccoli grandi frutti che vediamo spuntare di anno in anno nella realtà locale: un lavoro fatto di gesti di importante aiuto alla popolazione di qualsiasi tradizione o etnia e soprattutto di quotidianità che si rivela anche nella cura per gli ospiti, in questo caso proprio noi.
Seguendo l’intuizione di suor Gianna nella prima parte della mattina abbiamo fatto animazione fra i cortili del paese, tra le grida entusiaste dei bimbi e ancor più delle nostre; poi ci si riuniva tutti nel cantiere della nuova scuola materna per svolgere i laboratori di pittura, ballo e poesia. Per finire con la condivisione anche delle cene con alcune famiglie del luogo.
Durante i quindici giorni c’è stato tempo di visitare molti luoghi dell’Albania settentrionale, tra cui il capoluogo Lezhe, la bella Scutari e Tirana. Ma anche Velipoje, al Sud, con i ragazzi delle case-famiglia ospitati nel campeggio dai volontari di Progetto Speranza; Blinisht con l’Associazione Operatori di Pace che dedicano il loro tempo a quanti subiscono l’assurda legge della vendetta tra famiglie [che buono quel gelato preso con Lindita…]; il monastero kosovaro di Decani in cui Francesco ci ha illustrato la situazione drammatica delle famiglie delle enclavi serbe del paese; e poi ancora Pec, Gjiakova e la gita prima a Boga e poi a Theth, con i voli di vere aquile sopra le nostre teste.
Queste righe per tener vivo il ricordo di quei cento e più sorrisi buoni che hanno riempito per sempre le nostre vite e per ringraziare i meravigliosi ragazzi che, assieme a Rita, fantastica cuoca di fiducia e Omar, mascotte e autentico compagno di viaggio, hanno partecipato all’indimenticabile avventura  - Lamberto Scolari -

 

L'Albania è scompigliata. Confusa nelle strade come nei giudizi.
Per questo, forse, non si può addomesticarla in una definizione.
Né determinarla in una comoda opinione.
Si può, credo, solo raccontarla.
Siamo partiti sapendo che era il paese del due, del doppio, dell'opposto. Due aquile sulla bandiera, due modi di essere sulla terra. E l'abbiamo visto subito.
La stanchezza senza stimoli degli uomini persi tra i bicchieri di raki, la grappa locale, e il loro stare fermi,seduti. Sempre.
Come, per contro, con occhio stupito, abbiamo guardato l'intraprendenza sregolata di chi sfigura l'Albania con palazzoni scomposti, perché la vuole tutta diversa.
Si potrebbe parlare, con rabbia, del male che abbiamo visto. Dello sbaglio arrogante che si lascia guardare per intero in un paese che non ha mai costruito nemmeno un parco giochi. Perché i bambini, qui, se contano, contano poco. Con tremore si potrebbe raccontare di come i disabili, che sono una dignitosa fetta della popolazione albanese, non esistano. Anzi siano vergogne da chiudere bene, in casa. Come Albana, 32 anni, 4 figli, la SLA appiccicata addosso.
Dovrebbe camminare, molto, ripete instancabile Suor Gianna che se l'è presa a cuore. Dovrebbe essere accompagnata dal marito o da uno dei figli maschi in queste passeggiate , caldeggiate dai medici per rallentare il decorso della malattia. Dovrebbe, appunto.
Ma così non può fare, perché per il marito portarla in giro sarebbe come ammettere pubblicamente la malattia, che in Albania diventa macchia. É infamia.
Oppure si potrebbe dire del disgusto sporco che si sente quando si entra nella casa di Giulio e di Desara. Vetri per terra, escrementi e rifiuti mai buttati. Dolori mai affrontati. Giulio ha 8 anni e l'epilessia, vive stipato in una baracca di due stanze senza porta e dignità con la sorellina Desara dieci anni e due piccoli gemellini, i suoi dolcissimi fratelli, sempre attaccati al collo. Altre sette persone tra zii e nonni abitano quella miseria. Il nonno è alcolizzato, lo zio, che lavora la sera sulla spiaggia arrostendo pannocchie per i turisti, è praticamente l'unico che porta a casa qualche lek (moneta locale ndr).
E poi si potrebbe dire di Lindita.
La sua storia meriterebbe almeno il sollievo, si fa per dire, della narrazione .
Ma raccontare della sua sofferenza, qui, in poche righe, sarebbe ingiusto. Perché sarebbe una riduzione.
Forse di lei, fa già abbastanza male ricordare la risata dolorosa.
Un riso insistito il suo, immotivato, continuo. Quasi volesse sfruttare l'istante e riempirlo di tutta la gioia che la vita le ha negato prima e che le negherà sempre. Le due ore di pausa da una prigionia che non finirà mai, dovevano nella sua mente risoluta, essere perfette. Per questo, quando l'abbiamo portata fuori, per un gelato, dalla sua casa nell'Albania rurale da cui non usciva da troppo tempo, ci ha travolti.
Era eccessiva la sua letizia perché eccessivo era ed è il suo dolore. Ci siamo avvicinati in punta di piedi alla sua storia, che non trova aggettivi adeguati.
Prigioniera. Forse è l'unico nome che il pregiudizio stretto all'ignoranza hanno scelto per lei. Prigioniera, per prima cosa, delle angherie del padre. Una vita di molestie continue in una casa dove tutto è promiscuo, dal grande letto in cui dorme l'intera famiglia alla stalla che un panno sfilacciato separa dalla cucina. Prigioniera in un mondo di scritte, di lettere che non potrà mai leggere, o scrivere. Perché nessuno le ha mai insegnato a farlo. Prigioniera in casa, vittima come la madre e i due fratellini del sistema della vendetta. Che in Albania, nel caso avvenga un omicidio, costringe tutti i componenti della famiglia all'isolamento tra le mura domestiche. Per sempre.
Ma Lindita è anche e soprattutto prigioniera del dolore grandissimo di aver avuto una sorella e di averla persa, solo un anno fa, per mano della follia ubriaca del padre che dopo il gesto si è tolto la vita.
Si potrebbe continuare a dire del male, della mafia, dell'immondizia sparsa dappertutto che lì diventa insulto, rifiuto di quello che è di tutti. Perché a contare è solo ciò che si possiede. Si potrebbe dire ancora molto, ma forse non sarebbe giusto. Perché i visi del bene, gli sguardi puliti noi li abbiamo visti. E ce li siamo stretti addosso.
La bellezza c'era e bisogna raccontarla. Sicuramente era nel volto aperto di Ardian, che con la sua simpatia quasi stremava e che con il suo coraggio quasi impauriva. Il bene era, ne siamo certi, nel piglio smaliziato dei vent'anni di Xhulio, che ci ha mostrato l'Albania giovane, quella che sa guardare avanti.
L'abbiamo visto chiaro, il bello, nell'entusiasmo caparbio di Gabriella e delle sue amiche Josephine e Dorissa. E nella serietà rilassata di Gerardo, quando con tutti i suoi quindici anni insegnava il gioco delle biglie ai bimbi del suo cortile. La purezza c'era nella vanità innocente di Alda, che si sistemava il fiocco attaccato al vestito prima di essere fotografata, e poi con dolce insistenza, sempre, chiedeva di condividere i suoi ritratti su Facebook perché li vedesse il fidanzato che sta in Italia.
Il coraggio, abbiamo avuto il privilegio di leggerlo nei gesti semplici, ma eroici di Valbona e degli ambasciatori di pace, che cercano come lei di migliorare con la loro mediazione la situazione delle famiglie in vendetta. Il giusto era dappertutto mentre guardavamo tornare dalla spiaggia di Velipoje i disabili abbracciati ai volontari dell'associazione Casa della Speranza, la prima organizzazione in Albania ad occuparsi di questa realtà.
Con il ricordo del bene trattenuto nel sorriso, ma anche con quello del male impregnato negli occhi, siamo tornati.
E forse così e forse per questo il paese del due, del doppio, delle contraddizioni spossanti e continue, rimane, per noi, un'approssimazione.

Miryam Scandola

 

VIAGGIO IN CAMERUN:
missione interculturale di volontariato a cura di Bina Madeo


"Non abbiamo orologi perché Dio li ha regalati ai bianchi… noi abbiamo il tempo"

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre
ma nell’avere nuovi occhi
(M. Proust)

Il volo per Yaoundé, la capitale del Cameroun, parte da Bruxelles. I voli in questo periodo sono pieni… di gente che torna a casa. Africani trapiantati in Europa, per lo più, che sono diventati europei, ormai. Arrivati qui per un lavoro, ma che tornano ancora a quella che per loro resta “la casa”. Anche loro come noi con altrettante valigie piene di altrettante cose da lasciare lì.
Dopo otto ore di volo, atterrate a Yaoundé, veniamo accolte da Salvador, la nostra guida che ci accompagnerà per tutto il nostro soggiorno e da Suor Michela e Suor Rosa le Missionarie Soeurs Filles du Sacré Coeur de Jésus che hanno dedicato la loro vita agli altri.
Aveva appena smesso di piovere e il cielo era rossastro e nero, con folte nuvole dai contorni ben delineati. Ero stanca per via del viaggio, ma molto felice di aver finalmente messo piede in Africa per la prima volta in vita mia. L’assalto di giovani ragazzi che si offrono per portare i nostri bagagli in cambio di qualche franco è una delle prime cose che colpisce.
Lo stipendio medio di un impiegato è di circa 26.238.28 mila franchi camerunensi che equivalgono a più o meno 40 euro. Così, un euro guadagnato portando le valigie a qualche turista, missionario o uomo d'affari, è tanto per questi ragazzi. Facciamo fatica - io sì - per cercare di evitare il loro assalto. Sono molto gentili. Un po' insistenti però e non demordono neanche quando facciamo notare che ci sono delle persone che sono venute a prenderci.
Con il suo sguardo fiero, Salvador, abituato a districarsi nella società camerunese e nel traffico di Yaoundé ci accompagna all’uscita dell’aeroporto con il Toyota di suor Michela e con un’altra macchina guidata da un amico sacerdote della comunità.
E’ notte. Ci avviamo verso Zamokoé, un piccolo villaggio in mezzo alla foresta camerunese, presso l’Hôpital “Notre-Dame” nel centro d’accoglienza “Oasi Mamma dell’Amore” dove alloggeremo nella casa per i volontari. Percorriamo la strada alternando quella asfaltata a quella sterrata, rossa, piena di buche e di polvere che entra dappertutto.
Il traffico, in genere, è caratterizzato da interminabili file di auto, ma soprattutto da mototaxi, le moto con le quali la gente comune si muove, a poco prezzo. Ci vanno in tutti i modi su queste moto: in due, in tre, in quattro persone con un bambino davanti, oppure con le merci caricate dietro e davanti a mo' di camion. Ovviamente… senza casco.
Man mano che si va verso la giungla si incontrano file sterminate di alberi di banane, di papaya e di ananas. Tra una piantagione e l'altra si susseguono piccoli villaggi. E ogni volta la strada si trasforma in mercato. I dossi sull'asfalto costringono gli autobus e le macchine a rallentare. Suor Michela ci racconta che di giorno a ogni sosta ci sono donne, ragazzi, bambini che offrono di tutto e vendono per poche monete prodotti locali. Vendono di tutto: papaya pulita, tagliata, pronta da mangiare, in sacchetti di plastica, arachidi, bevande fatte in casa, manioca, vino di palma. Ogni tanto ci sono dei posti di blocco della polizia.
Zamakoé è un villaggio che si apre su una vallata verde. Tutto è verde. La vegetazione è interrotta solo dai tetti delle casette basse costruite con mattoni e/o di fango e paglia, i tetti in lamiera che spuntano qua e là come tanti puntini grigi a far da contorno al verde che domina su tutte le sensazioni. In questo periodo – la stagione delle piogge - il cielo della giungla è avvolto da una foschia umida al mattino e alla sera. Fa un po’ freddo.
Prima notte in Cameroun trascorsa con grande emozione, per me! Cameroun, terra di grande fascino e ricca di profonde contraddizioni. Il nome Cameroun lo si deve ai commercianti portoghesi. Nel 1472 le caravelle del navigatore portoghese Fernando do Pó gettano l’ancora alla foce del fiume Wouri, dove oggi sorge Douala, alla confluenza dell’Africa equatoriale con quella tropicale. Un fiume ricco di gamberi e perciò denominato “Rio dos camaroes”.
Il vero viaggio in Africa inizia proprio da Zamokoé, inizia proprio dai due padiglioni dell’Ospedale presenti e dai preziosi reparti di maternità e pediatria punti fondamentali per tutti gli abitanti del villaggio. Sr Michela e sr Beatrice si prendono cura di tutte le persone bisognose di cure mediche, soprattutto dei bambini.
Significativa la nostra prima visita in ospedale. Il dolore e la sofferenza di ogni paziente veniva percepito da ognuno di noi con grande rispetto. La presenza della comunità missionaria prevede un coinvolgimento educativo nel settore sanitario sulla popolazione e sulla formazione professionale del personale sanitario che si fonda su un nuovo agire medico ponendo al centro il senso della vita, la dignità e il valore della persona e il rapporto salute-malattia sia nella dimensione personale che sociale.
Passeggiando lungo le strade, sono stata accolta dagli odori, dagli occhi, dalle mani e dai sorrisi della gente e dei bambini. Il cuore dell'Africa è il calore della gente, nella sua semplicità, il senso comunitario dell'esistenza, l'ospitalità sacra.
Significativa l’esperienza dell’animazione ludico - ricreativa svolta con tutti i bambini e i ragazzi della comunità di Zamokoé con una parte del nostro gruppo capitanato dalla nostra guida spirituale Suor Rosa Bianchera. Le attività di balli, canti, giochi, proposte condivise, hanno avviato uno scambio tra la cultura camerunese e quella italiana straordinario e di profondo significato di interazione tra due popoli.
Per venti giorni abbiamo fatto parte della comunità del villaggio di Zamokoé parlando, pregando, mangiando, giocando, cantando tutti insieme.
Era da molto tempo che sognavo di fare un’esperienza concreta di volontariato nel mondo della cooperazione internazionale e in particolare in Africa, continente che ho sempre amato.
Sono un docente specializzato nell’insegnamento/apprendimento della lingua italiana L2 per stranieri e collaboro con un Centro Studi Immigrazione da diversi anni. Ho conosciuto molti ragazzi e ragazze provenienti da paesi africani che hanno vissuto con difficoltà l’arrivo in Italia e solo con l’apprendimento della lingua hanno trovato un equilibrio interiore più solido nel nostro paese.
Il mio viaggio in Africa passa da Zamakoé a Yaoundé per una nuova avventura didattica: insegnare italiano a 17 studenti/esse.Il viaggio in Africa è sempre “un'avventura” scomoda e un po' comica. E’ sempre la nostra guida Salvador ad accompagnarci sulla Toyota. Suona di continuo il clacson per avvisare ed evitare di scontrarsi con qualche mototaxi o altri furgoni che potrebbero arrivare dall'altro lato. Non so dire esattamente da quale lato della strada avanzi, se a destra o a sinistra. Sarebbe più corretto dire che ondeggia tra un buco e l'altro, guidato da una specie di radar interiore. Lasciamo dietro di noi una nuvola enorme di terra rossa.
Sulla strada principale di Yaoundé ci sono bancarelle che vendono scarpe e magliette della nazionale di calcio del Cameroun: I leoni del Cameroun. Hanno tutte il numero 10 stampato e il nome di Eto'o.
Gli street market, i mercati di strada, caratterizzano il paesaggio urbano di Yaoundé. Di solito sono piccole case, di una stanza, con insegne coloratissime dipinte a mano, che vendono di tutto. E poi c'è quello coloratissimo, con i carrellini di ferro a due ruote, e le moto e un grande viavai di gente, dove si vendono frutta e verdura. Continuando si incontrano negozi di telefonini, computer e poi, sempre lungo la strada, con una lunga esposizione all'aperto, quelli che vendono poltrone, divani, armadi da salotto. Tutte in puro legno africano. Con le stoffe variopinte di ogni foggia. Zebrate, tigrate, comunque a tinte forti.
A Yaoundé veniamo ospitate per, dieci giorni, presso la sede de Vice Province Coeur de Jésus et de Marie – Soeurs Filles du Sacré-Coeur de Jésus coordinata da Sr Rosa Olinda e Sr Marlie.
Il Cameroun è un paese bilingue: dopo la sconfitta dei tedeschi nella 1^ guerra mondiale le colonie tedesche passarono alla Gran Bretagna e alla Francia. Così oggi qui tutti parlano alla perfezione inglese e francese.
Gli studenti sono tutti molto motivati a studiare la lingua italiana. La classe è composta da diciassette studenti di cui quattro novizie della comunità stessa. In realtà, il laboratorio di italiano doveva comprendere un numero massimo di dieci persone, ma il desiderio di apprendere l’italiano era molto forte, tanto da formare due gruppi suddivisi tra la mattina e il pomeriggio per un totale di sette ore di lezione al giorno.
L’esperienza di insegnare italiano in Camerun è stata per me fonte di grande arricchimento professionale e soprattutto umano. Il corso di insegnamento/apprendimento della lingua italiana si è basato su una valenza progettuale interculturale che ha avuto come fine l'incontro attivo tra persone portatrici di culture differenti, aperte al dialogo, disposte a modificare e a lasciarsi modificare. L’Intercultura, intesa come movimento di reciprocità, attraverso ogni attore/componente del gruppo ha permesso un arricchimento reciproco unico e immenso. Durante le lezioni di italiano, ho spostato l’angolatura della mia visione ad un’angolatura “altra”: l’atto di insegnare la lingua in un paese straniero non è un viaggio a senso unico, ma con l'altro e verso l'altro, con attenzione al suo punto di vista, alla sua memoria storica, alle sue fonti, alle sue narrazioni, al suo sistema di attese rispetto al futuro … allora si crea intercultura.
Un giorno osservavo i miei studenti nella pausa: dopo le tre ore della mattinata in attesa della sessione pomeridiana, molti studenti arrivavano almeno un’ora prima, prestissimo! Questo forse dipende dal Sole che sorge invariabilmente ogni giorno intorno alle 6 e tramonta intorno alle 18 poiché Siamo vicinissimi all’Equatore, del resto.
Alle 17:00 quasi alla fine della lezione, pensavo: -Saranno stanchi? Invece no! Una parte prende e va a giocare una partita di calcio in un posto che chiamano “stadio”. Un campo di polvere rossa per capirci. Un’altra parte va “a fare lo sport”. Vado a vedere. Quando inizia la partita c’è una partecipazione da finale del campionato del mondo. Sono belli/e, caldi/e, sudati/e. Il sole picchia, ma loro si allenano. Altri invece rimangono per l’elaborazione e prove dei testi teatrali, con le altre mie compagne di viaggio, che rappresenteranno in occasione della consegna degli attesti di frequenza al corso di italiano. Uscendo dalla scuola con Sr Rosa Olinda, ne incrocio qualcuno sul marciapiede. Mi sorride, come fanno sempre. Come mi hanno accolto. Fantastico!
Tutto qui scorre con grande serenità. Il tempo è un altro aspetto importante della vita africana. C'è un modo di dire che i miei studenti mi hanno insegnato e che esprime bene, a parer mio, il concetto:
"Qui non abbiamo orologi perché Dio li ha regalati ai bianchi, ma abbiamo il tempo". Tutto, infatti, è diluito come in bicchiere d'acqua. E' una dimensione liquida, fluida, un fiume placido.
Le ore del mattino sono quelle con la temperatura migliore per fare, lavorare, organizzare, prima che arrivi la luce del mezzogiorno. Tutta la giornata degli africani è scandita da ritmi naturali, certo più lenti dei nostri. Ma il tempo, anche se non si guarda l'orologio, viene percepito.
Il giorno della consegna degli attestati è arrivato: grazie alla collaborazione e al prezioso aiuto di Sr Marlie e di Sr Rosa Olinda che hanno permesso la realizzazione del corso di italiano, si giunge alla celebrazione finale con la Consegna degli Attestati. 
Superato il test finale, i ragazzi e le ragazze erano raggianti e soddisfatti: potevano esprimere la loro essenza più creativa attraverso la rappresentazione teatrale e la lettura dei testi da loro prodotti oltre che in lingua francese anche in lingua italiana: un vero capolavoro. La partecipazione calorosa delle famiglie e degli amici degli studenti è stata emozionante per tutte noi. Un’esperienza davvero unica, carica di forti e indescrivibili sensazioni.
Il viaggio in Cameroun mi ha permesso un contatto ravvicinato con una straordinaria cultura; le mille sollecitazioni dell’Africa, della città, dell’ambiente, dei profumi e degli odori, nonché dell’insegnamento mi
hanno permesso questa esperienza che mi ha “aperto” a vedere il mondo sotto un’altra prospettiva, con occhi diversi, oltre che ad avere la possibilità di arricchire il proprio bagaglio umano/culturale.

 

La mia ESPERIENZA in CAMEROUN

Siamo tornate a casa solo da qualche giorno.
L’impatto immediato al nostro rientro è stato inaspettato: tutto appare così ordinato, silenzioso, ricco, esageratamente pulito … tutto appare così “tanto”, così “troppo”.
Purtroppo basta poco, bastano poche ore per riadattarsi alla ricca vita europea; alla doccia calda, alla lavatrice, al letto spazioso, a internet veloce, al latte fresco e al rumore del tagliaerba del vicino.
Tornare stupisce quasi più che partire. Quando parti un po’ te l’aspetti questa “famosa” Africa; ne hai letto, te la sei fatta raccontare da chi ci è stato prima di te, ti sei preparato per accoglierla nella mente e nel cuore, per saperla prendere così com’è, così come viene.Non ti aspetti però di abituarti così velocemente a lei. Non ti aspetti di vedere quanto velocemente ci si può abituare a vivere con meno, quanto può essere piacevole vivere in modo più semplice, quanto le giornate trascorrano veloci anche senza correre da una parte all’altra, senza bisogno della nostra frenesia, perché il tempo può essere pieno di ben altro e può anche essere pieno di niente.
Ora che la vita “normale” è ricominciata, mi capita di voler essere sicura di ricordarmi bene dove sono stata, quello che ho visto e quello che ho provato; voglio essere sicura di non dimenticare, nemmeno un po’. Allora chiudo gli occhi e penso al villaggio e vedo la lunga strada dritta che ha voluto che arrivassi fino a lì, lì dove si vede la foresta distesa a destra e a sinistra, dove la terra è rossa, rossa come non l’avevi mai vista, dove ci sono cesti di frutta e verdura a lato della strada, le case semplici, povere e la gente che ti guarda incuriosita, ma alla fine ti fa un bel sorriso e ti saluta con entusiasmo, ti dà il benvenuto nella sua terra, nella sua casa.
La loro spontaneità non te la puoi dimenticare. Ti puoi sentire subito amico di questa gente che, è vero, ha bisogno di tanto perché ha tanto in meno di noi, ma a volte, più che dei vestiti, delle medicine, dei quaderni e dei colori per la scuola, ha bisogno di sentirsi come te, tuo fratello, di sentirsi speciale solo perché l’hai voluto conoscere, perché lo sei andato a trovare, come si fa con le persone care.
Anche lui ha il suo bel paese da farti conoscere, la sua cultura e le sue tradizioni, anche lui ha voglia di raccontarsi un po’ e di sapere un po’ di te, di come te la passi. Ed è proprio per lui che puoi dire: ne valeva la pena.

Helga Ferraglio

 

E INTRECCIANDO… LE ESPERIENZE…

Mulţumesc Romania = Grazie, Romania !
“Fa' salpare il tuo sogno, ficcaci dentro la tua scarpa” (P. Celan)
Questo il titolo del libretto dato ad ogni volontario di Albania, Romania ed Africa per l'Estate 2013.
“Fa' salpare il tuo sogno” ovvero realizza, metti in pratica ciò che hai sempre desiderato fare.
“Ficcaci dentro la tua scarpa”… cioè cammina! Fallo!Ed è ciò che abbiamo fatto anche noi ragazzi che abbiamo vissuto l'esperienza di volontariato in Romania. Abbiamo camminato. Camminato fisicamente certo, ma soprattutto camminato con il cuore e con la mente. Un cammino, un viaggio verso una realtà diversa da vedere e vivere con occhi illuminati da una luce nuova, con gli occhi di un viaggiatore, pronto ad adattarsi ad ogni situazione, pronto alla condivisione, pronto a farsi coinvolgere totalmente nelle due settimane di viaggio.
“Il mondo è come un libro e chi non viaggia ne conosce solo una pagina”.
Così recita un aforisma scritto da Sant'Agostino per celebrare l’importanza del viaggio, indicato come esperienza utile alla crescita interiore e personale dell’uomo. Viaggiare è una scuola di umiltà: significa mettersi in gioco…
Partiti a bordo di due furgoni, dopo circa 15 ore di viaggio attraverso paesaggi diversi e a tratti incantevoli di Slovenia, Croazia e Serbia, siamo giunti in Romania…
Prima destinazione la città di Drobeta-Turnu Severin dove ci siamo impegnati, nei primi 5 giorni, in opere di manovalanza con Sr Maria: costruire un gazebo, pitturare una staccionata, pulire la Chiesa e in attività ricreative con i bambini del Grest. Nel corso della permanenza a Drobeta abbiamo conosciuto 5 ragazze rumene, con cui abbiamo subito legato, e le suore della Comunità Figlie del Sacro Cuore di Gesù.
Suor Maria e altre consorelle, hanno aperto da un anno una Scuola Materna per bambini di tutte le classi sociali e di fedi diverse.
I bambini si sono dimostrati subito curiosi ed affettuosi nei nostri confronti, nonostante ci siamo catapultati all'interno di un Grest estivo già avviato da bravissime animatrici della Parrocchia di Drobeta. Durante questi 5 giorni abbiamo assistito le animatrici rumene affiancandole nell'organizzazione della “Festa di fine Grest”, la “Prima” in assoluto della Scuola Materna di Drobeta, alla quale erano presenti anche tutti i genitori dei bambini.
L’incontro ci ha fornito subito la possibilità di un confronto aperto con coetanee di cultura e mentalità differente dalla nostra. Avendo avuto la possibilità di stare insieme con due di loro, anche durante il soggiorno a Bucarest, abbiamo potuto osservare come, nonostante le diverse terre da cui proveniamo, i modi di fare e di pensare non siano poi così differenti. Abbiamo ammirato anche, con grande stupore, la notevole cultura che possedevano e l’impegno e la tenacia con cui si dedicavano nei lavori che svolgevano.
Per quanto fossero difficili le condizioni di vita di queste persone con cui abbiamo passato del tempo, abbiamo osservato nei loro occhi sentimenti di gioia, del piacere della compagnia e del gioco. Stare con noi significava per loro avere qualcuno al proprio fianco con cui passare degli momenti di felicità, fatti di sorrisi e lacrime di commozione. Questi incontri ci hanno fatto riflettere su quanto sia grande la forza della semplicità e dell’umiltà. Quante cose, molti di noi, dovrebbero imparare da loro…
Due delle animatrici rumene assieme a Suor Maria, si sono poi unite nel proseguo del nostro cammino che vedeva, come tappa successiva, Bucarest, la Capitale.
Altri 380km in pulmino per far continuare il nostro viaggio, anche interiore, visto che nessuno di noi sapeva esattamente cosa ci aspettasse. Giunti in Città siamo stati ospiti della Parrocchia di Padre Martin, vicario del Vescovo di Bucarest, una persona che ha fatto molto per la comunità cattolica della Capitale sia durante il regime di Ceausescu che dopo. Che sia una persona ben voluta lo si capisce subito dall'umiltà che trasuda solo a guardarlo negli occhi e nello scambiarci qualche semplice parola.
Ad accoglierci e a spiegarci le varie attività di questa seconda settimana, Arianna, una ragazza italiana di 27 anni che dopo una laurea magistrale ed un Master in Economia ha deciso coraggiosamente di lasciare tutto e di dedicare il suo tempo ad aiutare i bambini di Bucarest tramite la promozione di diverse attività quali il Centro Estivo e il Gruppo Scout che aveva, da poco, inaugurato. Il nostro servizio a Bucarest ci ha visti dunque impegnati nell'organizzazione e gestione del Grest e nell'assistenza alle Missionarie della Carità (Suore di Madre Teresa di Calcutta). Quest'ultima, per molti di noi, è stata forse l'esperienza più toccante.

Il Centro di “fratel Gennaro”, dei Fratelli missionari di Madre Teresa di Calcutta, ha una struttura organizzata per l’accoglienza dei senza tetto. L’incontro con questo fratello ci ha colpito particolarmente perché ci ha permesso di conoscere una realtà a noi poco nota; si faceva visita alle baracche degli zingari, facevamo animazione del Grest con i bambini della comunità parrocchiale di Bucarest Noi e si prestava aiuto alle Suore nel centro di “Madre Teresa di Calcutta” con i diversamente abili.
Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi la miseria in cui vivono le famiglie tra le più povere della periferia di Bucarest. Accompagnavamo le Suore nei loro giri quasi giornalieri tra queste famiglie, incontri finalizzati a stringere legami intrattenendo con giochi educativi i bambini che erano, tra l'altro, felicissimi di vederci! È incredibile quanto un piccolo gesto come un gioco, una canzone, un semplice sorriso possa infondere così tanta felicità in questi ragazzini.
Oltre alle esperienze vissute in prima persona, ciò che ci ha colpito è stato il racconto da parte di Celina (una donna della parrocchia di Bucarest Noi, dove eravamo alloggiati) riguardante la fame patita e la povertà vissuta in Romania sotto il regime di Ceausescu. Al giorno d’oggi il paese, grazie soprattutto ai finanziamenti dell’UE, si sta risollevando pian piano economicamente e sta trovando un suo spazio nella scena mondiale; rimangono ancora tanti problemi aperti come, ad esempio, i molti bambini abbandonati che vivono ancora per strada.
La casa di questo gruppo di Missionarie della Carità accoglie circa 15 ragazzi di circa trent’anni con handicap fisici e mentali piuttosto gravi. Anche in questo caso l'impatto è stato forte e, anche se a noi sembra di aver fatto poco, forse loro hanno avvertito la nostra presenza e la nostra vicinanza.
Come non ricordare, inoltre, il sorriso e il ringraziamento pronunciatoci dai senzatetto ai quali siamo andati a servire la colazione una mattina. Anche qui un gesto semplice, ma che vale tanto per loro e per noi.
E’ stata una scuola di umiltà e ciò significa mettersi in gioco, imparare a conoscere i propri limiti e provare a vivere come vivono le persone che si incontrano. Durante il cammino si incomincia ad aprire gli occhi, il cuore e la mente nell’incontro con l’altro. Si abbandonano i pregiudizi e gli stereotipi, cresce il desiderio di immergersi nelle abitudini e nella cultura del diverso, di imparare la lingua, degustare i cibi locali, conoscere e fare amicizia con persone nuove, provare a pensare e a vivere come gli abitanti del luogo.
Sono questi i sentimenti che hanno accompagnato il viaggio in Romania di noi 17 ragazzi. Durante questa esperienza si è consolidato il rapporto del gruppo, nella collaborazione, condivisione e autogestione dei compiti e delle situazioni che mano a mano si presentavano.
Un'esperienza indimenticabile, con un contorno d'eccezione: IL GRUPPO. Ho conosciuto ragazzi splendidi, profondi e interessanti. Ragazzi che da ora in poi chiamerò felicemente “Amici”!
Sono partito con molte domande, sono tornato con alcune risposte e altrettante domande, quindi direi che il bilancio del mio cammino sia stato più che positivo.
Non sono mancati i momenti di svago: la gita notturna a Bucarest, il favoloso bagno nel Danubio, la visita al Castello dei Re di Romania e quello di Dracula in Transilvania.
Ringrazio Suor Luisa, il “capo branco” che è riuscita ad organizzare il tutto; ringrazio Suor Maria, per la sua ospitalità e gentilezza e tutto il gruppo di amici con il quale sono partito.
Concludo con la frase che ci hanno detto le Missionarie della Carità quando ci siamo salutati:

“Thank you for gave us your souls”! (Grazie per averci donato le vostre anime).
Un messaggio di umiltà, di semplicità che forse dovrebbe essere il filo conduttore del nostro cammino di tutti i giorni.
L’esperienza di questo viaggio non ci ha fornito tutte le risposte alle domande che ci sorgevano nell’anima, ma sicuramente ci ha sollecitato a diventare più curiosi, più attenti ai particolari e più aperti verso l’altro.
E’ aumentato l’interesse, il piacere di conoscere persone di cultura differente e il desiderio di ritornare presto in un paese meraviglioso con persone fantastiche come quelle che vivono in Romania.
Il nostro cuore? E’ rimasto un po’ là.
LA REVEDERE ROMANIA…! (Arrivederci, Romania!)
Tommaso e Angelo

Vai all'inizio della pagina