“DO LA MIA VITA ……

La relazione educativa che fa vivere

Già dai primi passi dentro questo ministero altissimo che è l'educare, ci soccorre una Parola che è stata annunciata e che abbia¬mo iniziato a masticare, perché la Parola di Dio va masticata, essa ci incoraggia, ci illumina, ci rassicura: "Io sono il buon/bel pastore conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, per loro io do la mia vita". Il Bel pastore, perché nel testo greco lo stesso aggettivo che traduce "buon" traduce anche "bello". Rammento Dostoevskij quando afferma: "è la bellezza che salva il mondo", è la bellezza che salva la nostra vita, come a dire c'è un principio di bellezza dentro ogni realtà. Ma non è l'uomo ad averlo messo e ha bisogno di uno sguardo capace di intercettarlo. Questo è il compito di ogni educatore.
Mi soffermo su alcune suggestioni che emergono da una prima lettura dell'inciso dell'evangelista Giovanni: l'attenzione è al pastore, alle pecore che conoscono. C'è una circolarità più volte ripetuta nel brano di conoscenza e di riconoscimento di una voce, di una presenza, di un'azione del prendersi cura che permette la vita, promuove l'umanizzazione, il crescere come persone. È una conoscenza generata da una fiducia reciproca, da una certezza che è a fondamento della dinamica dell'uscire da sé per esplorare, incontrare, porre in atto... agire.
L'immagine del buon pastore si concretizza in questo tratto fondamentale: lui conosce le sue pecore ed è una relazione sorprendente, è sufficiente che le pecore sentano la voce del pastore, non c'è bisogno che alzino lo sguardo, odono e lo seguono, si fidano, di una fiducia incondizionata, non hanno bisogno di controllare ... sanno da che parte andare anche se non guardano in faccia il pastore: suo compito è tracciare una traiettoria di vita.
Conoscono, odono e riconoscono nel cuore la voce, neanche i discorsi e i contenuti, così come per i bambini la voce della mamma: il bambino conosce la voce della mamma che lega, crea un ponte, un'alleanza con lui.
Questi due sono indissociabili, si capiscono e il bambino si affida senza indugio.
Prendersi cura ci dice la vita, ce lo ricorda il vangelo consente all'altro di superare la propria condizione di fragilità, è modalità ineludibile del nostro nascere al mondo. Senza una figura capace di dedizione materna, l'essere umano difficilmente continua a nutrire il desiderio di ex-sistere che lo ha portato alla luce. L'essere umano ha bisogno di ricevere cure per potersi aprire alla vita e di aver cura di sé per poter cogliere e gustare il valore della propria esistenza. Prenderci cura equivale a dare vita, equivale a condurre, aprire dei sentieri, delle traiettorie di vita, equivale a creare delle esperienze di vita buona che permettono a ogni bambino/ragazzo di scoprire, gustare e costruire il valore della propria esistenza.
Insisto su questo verbo: gustare. La Genesi ci ricorda che Dio creando l'uomo vide "che era cosa molto buona/bella". C'è un principio di bellezza che siamo chiamati a saper intercettare: la bellezza che sta salvando la vita di ogni piccolo uomo ha bisogno di uno sguardo che la intercetti, perché sia reso capace di gustare la bellezza della vita e sappia viverne. A differenza di tutte le altre creature della natura, egli ha bisogno dello sguardo di un altro per conoscere la sua bellezza, per essere se stesso ha bisogno di trovarsi dentro uno sguardo che sa riconoscere, dentro una relazione.
Mi pare di poter dire che questo possa essere la declinazione dell'invito evangelico del "dare la vita" non in unica soluzione, in un atto definitivo, evidentemente, ma in una quotidianità che è impregnata di tante priorità che ci chiedono riconoscimento, perché la vita possa essere generata. Non c'è un momento stabilito per dare vita, si genera vita quando è richiesto, non quando il protocollo lo prevede ... possiamo azzardare a dire che questa "postura generativa" che sa farsi carico della vita degli altri, è il substrato sul/nel quale noi educatori, genitori, insegnanti, catechisti operiamo, perché siamo tutti padri e madri anche se non abbiamo generato nella carne, paternità e maternità sono dimensioni interiori che ci appartengono e che richiedono di essere esercitate sempre. Il prendersi cura dell'altro nutre il desiderio di ex-sistere. Se ci soffermiamo sull'etimo di questo termine: "desiderio di strappare qualcosa alle stelle, qualcosa che sta in alto..." scopriamo un'indicazione fondamentale. Possiamo chiederci cosa centriamo noi con i desideri dei nostri ragazzi? Credo che il nostro compito sia quello di rendere accessibile, di rendere concreto e possibile il desiderio di ex-sistere: di venire alla luce, di darsi forma, di raggiungere quella forma di vita migliore possibile a cui ognuno è chiamato, di dare il meglio di sé. Ognuno di noi si insinua dentro questo desiderio e lo fa crescere tramite l'azione di cura che convoca a un agire, prima di tutto, acco¬gliente che è diverso da essere accettati, in quanto l'accettazione implica uno sforzo, accoglienza piena di stima che permette ad ogni limite di diventare un punto di forza. Generiamo vita prendendoci cura, diamo vita riconoscendo la vi¬ta dell'altro.
Il riconoscimento è fondamentale, è sostanza della relazione educativa, è uno sguardo che raggiunge e tocca la vita di chi ci è affidato e sa comunicare ciò che è vitale: tu esisti, tu vali, tu sei importante, tu ti stai costruendo, tu hai fatto dei passi, dei miglioramenti. Questa è la condizione perché ogni bambino, ragazzo, giovane, possa formarsi nella sua traiettoria evolutiva e nel proseguo della vita. E' proprio grazie al sentirsi riconosciuti che la persona assume la responsabilità della propria esistenza una volta giunti alla consapevolezza di sé e del proprio valore. Riconoscere per generare interiorità, perché i bambini/ragazzi imparino a voler bene a se stessi e agli altri, a indirizzarsi verso un progetto grande per il quale sono nati. E ogni educatore ha il dovere di saper condurre, di fornire strumenti, perché diano forma alla loro interiorità, tramite le parole, la riflessione sull'esperienza, la capacità di porsi interrogativi.
Nell'intento di capire chi sono e chi vogliono essere, i ragazzi sono chiamati a confrontarsi con un
 mondo fatto di pensieri, esperienze generate nel dialogo con l'altro, l'adulto che è punto di riferimento.
La relazione educativa ci richiede un grande investimento in termini di energie e di affetto per prestare attenzione, pensare, comunicare con l'altro, per essere riferimento per ciascuno e per tutti, ci richiede capacità di ascolto dentro un dialogo accogliente, attento, rispettoso dei tempi e delle emozioni che i giovani, soprattutto adolescenti, vivono con grande intensità e che gli adulti devono saper contenere, adulti fermi, ma accoglienti senza condizioni. A volte i ragazzi si ribellano per la loro fragilità e potersi fidare e affidare ad altri diventa la possibilità non solo per sopravvivere, ma per costruirsi come persone. Essere accanto a loro capaci di soddisfare le esigenze emotive, affettive, cognitive ci fa essere presenze rassicuranti nel momento in cui si trovano a confrontarsi con il nuovo e con l'incertezza che porta con sé.
L'essere presenti nella loro vita fa sì che si generi fiducia, essa scaturisce, da una vicinanza che dice "la tua vita è importante, mi sono accorto di te, tu vali". Come fa il bel pastore della parabola.
Di questo hanno bisogno, di educatori adulti che sanno scommettere sulle loro capacità, che sanno essere guida e sostegno, fermi e autorevoli quando è il momento per il ragazzo di misurarsi ... quando il confronto cede il passo allo scontro inevitabile, al contrasto così importante per fare il passo di crescita necessario.
Suor Luisa Ruggeri fscj

 

Bibliografia di riferimento
P. Dusi (2007), Riconoscere l'altro per averne cura, Editrice La Scuola
L. Mortari a cura di (2010), Dire la pratica. La cultura del far scuola, Bruno Mondadori
P. Dusi (2013), La comunicazione docenti-genitori, Franco Angeli Editore

 

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